“Contro la solitudine, piaga emergente, serve un cambiamento culturale: dall’io al noi”. Al Vigilianum stimolante dialogo tra vescovo Tisi e medico Cembrani

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Aula magna del Vigilianum esaurita giovedì 6 febbraio per la serata promossa da Diocesi e Azienda Sanitaria sul tema “La solitudine. Un’epidemia silenziosa che fa ammalare e uccide“. Relatori l’arcivescovo Lauro Tisi e il dottor Fabio Cembrani (direttore U.O. Medicina Legale), moderati dal direttore di Vita Trentina, Diego Andreatta. Per approcciare quello che Cembrani definisce “un problema di salute pubblica che interessa tutti” e Tisi la “grande malattia di quest’ora, anche nella Chiesa che appare così lacerata” serve – ed è il messaggio forte della serata – una presa d’atto di un contesto socio-culturale dominato dall’egocentrismo narcisistico. Don Lauro ricorda la premessa di Genesi “Non è bene che l’uomo sia solo”, ma nota come “questa affermazione oggi viene negata a livello concettuale. Il mondo occidentale è dominato dall’astrazione, non è concreto, non ha i piedi nel reale. Incredibilmente – per una serie di fattori culturali, storici, ambientali, economici e di mercato – si è creato il mito dell’uomo che si pensa senza gli altri, toto-potente e autosufficiente”, frutto della spaccatura tra un “vivere concreto delle persone, segnato dal desiderio dell’incontro ed il percepito che fa pensare a te come microcosmo”. “Nel passato la comunità assorbiva l’io. Ma l’io se n’è andato, lasciando a casa il noi”,  rileva in un altro passaggio l’Arcivescovo che rammenta come il “cristianesimo abbia sempre esaltato l’”io” nella relazione, ma a un certo punto anche nelle stanze ecclesiali è maturata la dinamica di un “io” che sogna di poter fare da solo”.  “La solitudine dunque – sottolinea con forza monsignor Tisi – rimanda a una dimensione non etica ma esistenziale e risponde alla domanda: chi è l’uomo? Un Individuo narciso o una persona in relazione? Dobbiamo riappropriarci dei fondamenti culturali: un uomo che è tutto relazione si dà la morte scegliendo di voler essere senza gli altri”. Per ritornare a riappropriarci della nostra struttura relazionale, don Lauro indica alcuni percorsi: ritornare al silenzio, non in chiave religiosa ma umana, in quanti dialogo con se stessi; fare un Inno alla lentezza, senza la quale non si è umani; avere il coraggio di frequentare idee diverse dalla propria, imparare a udire la voce dell’altro e ospitare le sue ferite, rendendosi a lui vulnerabile”. 

Sulla necessità di agire alla base culturale di una società narcisistica per incidere sulla drammatica espansione della solitudine concorda il dottor Cembrani che indica, dati alla mano, come “un terzo delle persone è colpito da questa condizione (una persona su 12 in maniera grave) e che queste proporzioni stanno purtroppo aumentando”, andando a toccare ogni fascia d’età. Cembrani cita il fenomeno emergente del cosiddetto “Hikikomori”, che “in Giappone – spiega – vede la volontaria esclusione sociale di quasi 2 milioni di adolescenti volontariamente reclusi nella loro stanza senza alcun contatto con l’esterno restando però immersi nelle relazioni virtuali delle chat e dei videogiochi online. In Italia se ne contano ben centomila”, allarma Cembrani,  facendo notare all’attento pubblico come “la solitudine non è una questione di nicchia o di èlite, rappresentando un problema di salute pubblica che interessa tutti i Paesi industrializzati potendo essa colpire tutte le fasce della popolazione, da quelle più giovani a quelle più anziane”. Le cause secondo il dirigente medico trentino sono l’espansione della cultura individualista, la fragilità della struttura familiare (oggi di una persona anziana non autosufficiente si occupano mediamente 3 persone, nel 2041 si prevede che ci sarà solo 1,5 familiare a prendersene cura), l’ampia diffusione delle reti virtuali di Internet, “anche se i giganti del Web continuano a rassicurarci sull’idea che i loro prodotti sono utili a creare relazioni, mentre ci disconnettono sul piano della solidità relazionale”. Per Cembrani una risposta alla solitudine (che agisce sul cervello e per alcuni anche sul patrimonio genetico, anche se non se ne conoscono ancora le basi biologiche) può arrivare dalla “promozione di una sensibilità pubblica capace di formare, in una forma di welfare moderno di carattere generativo, una rete di supporto in grado di contrastare questa drammatica epidemia. Ma per questo servono legami familiari, amicali, di comunità”. E in risposta ai molti interventi in sala, il medico si dice fortemente “contrario all’aziendalizzazione della sanità. I pazienti chiedono relazioni e non solo pacchetti preconfezionati. Serve – sottolinea ancora Cembrani – un sussulto di umanità, delle coscienze. In linea con Tisi, cita Bonhoeffer quando parla della necessità di “caricarsi sulle spalle le persone più vulnerabili

“Questa sera abbiamo solo acceso il motore” chiude l’Arcivescovo che sprona  a rinnovate sinergie pastorali sul territorio costruite attorno alla solitudine, per una comunità sanantePotremmo riflettere nelle assemblee pastorali d’autunno per vedere quali comportamenti patogeni nelle comunità creano solitudine mortificando il noi. Ognuno di noi può essere protagonista della lotta alla solitudine partendo da un discernimento su di sé, per capire se siamo fattori di comunione o provocatori di solitudine, cominciando dalla cura nell’uso delle parole che spesso demoliscono. Devo diventare casa dove accogliere l’altro. Puntiamo a sorridere, fermarsi, non essere altrove, dare tempo! Non è vero che non abbiamo tempo, spesso viene dilapidato. Lavoriamo sulla diffusione della cultura dell’incontro, cercando di combattere la cultura della fake-news dell’io senza l’altro. La partita non è religiosa ma di tutti, è la partita dell’uomo. Tu vivi solo se incontri”.

FOTO PANATO

Da sinistra: Fabio Cembrani,  Direttore medicina legale Trento; Diego Andreatta, direttore  di Vita Trentina; monsignor Lauro Tisi arcivescovo di Trento alla serata “La solitudine un epidemia silenziosa che fa ammalare e uccide” – Trento Vigilianum (foto Daniele Panato/Agenzia Panato)