“La Chiesa che non cerca tra i morti”, la riflessione del teologo Ivo Seghedoni

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Dal libro «Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità» (a cura di Derio Olivero, Effatà Editrice, 2020), pubblichiamo uno stralcio dell’intervento del teologo docente presso la Facoltà teologica del Triveneto.

Cercare, dovunque, chi sta cercando

Un nuovo volto di Chiesa, la sua nuova forma che potrebbe nascere da questa crisi, allontanerebbe finalmente da noi quel modo di ragionare che edifica muri, anziché abbatterli. I battezzati non praticanti, finalmente, potrebbero ottenere nella Chiesa un nuovo riconoscimento! Non vanno a messa, da tanto tempo: chissà perché! Forse avranno anche delle buone ragioni che sfuggono alle nostre ragioni teologiche e pastorali. Perché, ci saremmo dovuti chiedere da tempo, non vanno a messa? Perché stanchi di linguaggi stereotipati e di stili di Chiesa poco evangelici? Perché hanno fatto esperienze negative con uomini e donne di Chiesa? Perché nessuno mai li ha realmente aiutati a comprendere la bellezza dell’Eucaristia? Perché — e questo ultimo punto va preso molto sul serio — nella loro ricerca di Dio non è il loro kairos, il loro tempo? Da tempo eravamo abituati a pensare l’adesione alla comunità cristiana come un insieme costituito di cerchi concentrici. Sono state le inchieste socio-religiose a farci pensare così. Fin dalla imponente inchiesta tenutasi in Francia per iniziativa di G. Le Bras e F. Boulard (1946-1970) abbiamo iniziato a pensare che ci siano tanti diversi livelli di adesione alla Chiesa: il livello più esterno è costituito dai “separati”, quelli che — pur battezzati — hanno rotto il legame con essa, poi poco più vicini i “conformisti stagionali” che vanno in chiesa soltanto per i riti di passaggio (nascita, iniziazione cristiana, matrimonio, morte…), poi i “praticanti irregolari” che incontriamo a Natale e Pasqua o qualche altra grande festa, e finalmente i «praticanti regolari» che ogni domenica partecipano alla messa, e infine i «devoti», coloro cioè che frequentano ancora più assiduamente e partecipano ad associazioni di impegno ecclesiale. Questa immagine del popolo di Dio ci è straordinariamente familiare! La messa, che è divenuta attraverso le indagini socio-religiose la principale “unità di conteggio”, in tal modo è stata anche considerata l’unico segno esteriore di adesione alla fede cristiana e alla vita della Chiesa. La preghiera personale, la pratica della carità, la dimensione etica della vita, pur essendo anch’esse rilevate dalle indagini non sono, nella ordinaria vita pastorale delle comunità, un segno importante di appartenenza al Popolo di Dio. Adesso, però, improvvisamente, sono tutto ciò che è rimasto! Fino all’8 marzo (almeno in Italia) credere era “andare a messa”. L’Eucaristia aveva eclissato, per così dire, tutti gli altri elementi di una vita religiosa cristiana. Si poteva essere considerati soltanto “non praticanti” o “devoti”, senza dare rilievo a tutte le sfumature intermedie dell’appartenenza alla comunità cristiana e di adesione al messaggio evangelico. Sfumature che non sono esattamente tali, perché ciascuno di noi vive a proprio modo la sua adesione al Vangelo e la sua sequela. Nessuno lo vive in pienezza, ma soltanto nella propria “edizione”, tanto riduttiva certo, ma anche tanto originale! Oggi, in questa situazione in cui ci è stata negata la possibilità di andare a messa, siamo liberati da un tragico errore: quello di considerare la pratica dell’Eucaristia come se fosse tutta la religione! Abbiamo capito, oggi, che non è così e che la pratica o l’astensione da essa creano soltanto una semplice presunzione di credenza o non credenza (G. Le Bras). Una presunzione che ora, provvidenzialmente, si è sbriciolata! Non siamo andati a messa nemmeno noi per settimane e anche ora, dopo una ripresa delle celebrazioni con il popolo, frutto di un braccio di ferro con il Governo e ammorbidito in seconda battuta dal presidente della Cei che ha dato frutto al protocollo del 7 maggio scorso, non tutti tra noi ci andranno. Per molte ragioni ragionevoli, al punto che nello stesso Protocollo di accordo su carta intestata del Ministero dell’Interno (!) curiosamente si ricorda «la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute». Dunque siamo finalmente simili. Finalmente fratelli. Eppure li abbiamo a lungo guardati con una certa sufficienza, abbiamo giudicato la loro fede una fede povera, “benevolmente” l’abbiamo pensata una fede un po’ dimessa, alquanto immatura…, forse l’abbiamo ritenuta perfino una fede di comodo, quella fede “fai-da-te” che puoi maneggiare a seconda dell’utilità del momento: comunque una fede non adeguata. Li abbiamo sempre un po’ guardati con diffidenza e adesso, improvvisamente, siamo come loro! Siamo anche noi, come tanti, credenti non praticanti. Fedeli non praticanti! Abbiamo preso coscienza di essere simili. O almeno ci siamo accorti che, al momento attuale, ci comportiamo come loro. Ora che il coronavirus ci ha resi più simili, più fratelli in una fede comune meno evidente, ma forse più condivisa, nasce una domanda: che cosa rimane di quella che era la comunità cristiana senza il rito che ne struttura l’esistenza e ne permette il riconoscimento? Chi appartiene quindi al Popolo di Dio? Chi sono i cristiani? Chi avrebbe ipotizzato che questa pandemia avrebbe ricollocato i confini del popolo di Dio, annullando la distanza tra chi pratica e chi non pratica? Facendo forse, in tal modo, giustizia di giudizi affrettati, di recinti chiusi, di silenziosi meccanismi di esclusione verso chi — diversamente da noi — a messa non ci va. La “grazia al tempo del coronavirus” — se di grazia si può parlare in questo tempo di prova e di dolorosa esperienza di fragilità e di morte — consiste nello scoprire che gli indizi per cogliere di praticare la vita cristiana o di non praticarla vanno cercati altrove, con altri parametri, su altre abitudini che non sono soltanto la messa della domenica. E così, in questo modo, possiamo ricomprendere ciò che insegna sant’Agostino ne La città di Dio (I, 35), che molti di quelli che Dio ha, non li ha la Chiesa, e molti di quelli che la Chiesa ha non li ha Dio. Oggi, mentre chi siano “quelli che la Chiesa ha” non è più tanto chiaro, diventa ancora più intrigante pensare chi siano quelli che davvero Dio ha. In altre parole: la “sparizione” della “pratica” intesa come partecipazione alla messa dissolve i confini visibili, quelli che definivano con chiarezza l’essere dentro e l’essere fuori. Improvvisamente e forse provvidenzialmente, siamo ricondotti alla consapevolezza che tutti i battezzati appartengono al Popolo di Dio, tutti lo costituiscono, tutti sono chiamati a vivere l’alleanza di vita e di amore offerta da Lui in Gesù. Con una diversa pratica. Che non è più la messa. Almeno non solo la messa. Il coronavirus ha contribuito a liberare tanti fedeli cattolici dal “silenzio” dovuto alle loro frequenti assenze ecclesiali. La loro maniera poco canonica di esprimere la loro fede ha creato tra loro e i praticanti un muro di diffidenza, condizionato dagli sguardi reciproci…, un muro che ha sempre fatto nascere domande: «Siamo ancora la stessa Chiesa? Condividiamo la stessa fede?». Forse oggi, non potendo andare a messa, scopriamo che noi, quelli che “erano dentro”, possiamo rispondere finalmente di sì. Mentre prima preferivamo (ma lo facevamo a bassa voce) rispondere di no… Sì, forse abbiamo la stessa fede, se rispettiamo insieme gli uni e gli altri una differente pratica, se viviamo una condizione decisiva. Che non si misura più a partire dallo spartiacque tra “vado a messa” o “non vado a messa”. Forse ora, grazie a questa esperienza, abbiamo modo di cercare, con un atteggiamento nuovo e un nuovo desiderio di scoperta, chi siano i cercatori di Dio. Fuori dai pregiudizi e da confini che noi stessi abbiamo costruito, supponendo che questi cercassero e quelli no.

Una liberazione anche per i preti?

Ma se tutto quanto andiamo dicendo vale per la Chiesa, esso ha anche un rilievo per i preti, ai quali ritorno in conclusione della mia riflessione. La loro situazione personale di agio o disagio costituisce, infatti, all’interno della comunità cristiana, un indicatore molto sensibile della speranza per il suo futuro. Se al tempo della civiltà parrocchiale, centrato sulla convocazione obbligatoria di tutto il popolo di Dio, seguisse un tempo nel quale la Chiesa imparasse a custodire la propria fede anche in contesti più semplici e, senza rinnegare la centralità dell’Eucaristia, sapesse alimentare la fede nella condivisione di piccole comunità, tutto questo aprirebbe forse nuovi ambiti di testimonianza e di annuncio. Nuovi spazi e occasioni di missionarietà. Riflettendo su questo passaggio Ch. Theobald osserva che in questi mesi di confinamento sociale abbiamo sperimentato «una tradizione di preghiera (domestica) che esisteva nella Chiesa primitiva. La si trova negli Atti degli Apostoli (2, 42): «I fratelli erano assidui nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere». La vita cristiana era vissuta nelle case. Fin dall’inizio del confinamento, molti cristiani hanno mostrato una creatività incredibile. A causa di questa crisi sanitaria, stiamo forse riscoprendo questa dimensione domestica della vita cristiana». E non si tratta soltanto — come egli propone — di «invitare i preti a celebrare nelle case». Sono necessarie oggi altre forme di invenzione, altre forme di preghiera, di catechesi, di accompagnamento delle fragilità delle persone. Forme di attuazione di quella Chiesa narrata negli Atti degli Apostoli che — senza svalutare la centralità e la pienezza del gesto eucaristico — sostengano la vita della Chiesa in una ferialità ugualmente nutrita grazie ad una liturgia festiva che dall’Eucaristia nasca e all’Eucaristia conduca. La parrocchia e il servizio dei presbiteri sarebbero così diversamente dislocati, anziché fortemente centralizzati come è stato fino ad oggi. Ci fa bene, continua Theobald, sfruttare questa occasione per chiederci perché ci manca l’Eucaristia quando tante persone intorno a noi si definiscono cristiane senza bisogno dell’Eucaristia. E riflette: «Forse ciò che questa crisi ci rivela è che nella Chiesa c’è una tale concentrazione sull’Eucaristia che tutto il resto di cui si parla negli Atti rischia di scomparire. Non si tratta di colmare la lacuna, ma di farne un’opportunità di profonda conversione. I cristiani, come il resto della gente, sono presi dall’individualismo — che a volte sentiamo espresso in questo modo: «Voglio la mia Messa». Che si domandino: vanno a Messa per tradizione, per fedeltà, per trovare altre persone, per diventare una cosa sola con gli altri, e infine per incontrare Cristo? È Lui che è il nostro cibo nel pane e nel vino».

Fa bene alla comunità stare davanti a questa domanda impegnativa e fa molto bene ai presbiteri. Una volta sprogrammati rispetto ad un ministero troppe volte piegato soltanto al bisogno rituale, da offrire obbligatoriamente ad orari precisi, da reiterare regolarmente per rispondere a bisogni religiosi poco verificati, che cosa rimane infatti del loro servizio ecclesiale?

Ciò che rimane, ciò che può realmente dare rilancio ad una vocazione che rischia di manifestarsi stanca per i gesti troppo ripetitivi e per una forma di cristianesimo ancora troppo imbrigliata nell’osservanza del precetto, è — sempre a parere di Ch. Theobald — “la sua funzione di mistagogo, di uomo che aiuta le persone ad entrare in una vita spirituale. Una vita spirituale dove la fede cristiana si gioca in casa e non in chiesa, nelle attività profane e non nel tempio”. Esercitando tale funzione, meno centralizzata, meno burocratica, meno manageriale, forse anche per i preti si aprirebbe un tempo nuovo, un orizzonte nuovo. Una stagione di nuova ministerialità e quindi di più appassionata missionarietà: fatta di ascolto e di incontro, di dialogo cordiale e di ricerca culturale senza pregiudizi, di ideazione sociale e di sostegno cordiale per le iniziative a favore delle persone. Una ministerialità fatta di prossimità, di relazione e di vicinanza, in uno stile pastorale a prescindere dal quale l’Eucaristia non può essere celebrata.

Chiuso il “negozio parrocchiale” a causa di questa crisi, oggi in Italia “aperto h24” per soddisfare bisogni religiosi, pseudo-religiosi, a volte fanta-religiosi e spesso di natura puramente sociologica, i presbiteri si scoprirebbero certamente più poveri, ma anche più leggeri. Vivrebbero forse la sorpresa di essere più nudi perché spogliati da un ruolo rassicurante, ma anche più concreti e più umani nell’incontro con le persone e le loro situazioni di vita. Si ritroverebbero ad essere forse molto meno rilevanti, meno centrali (benché la loro posizione sociale sia già da tempo indebolita), ma anche meno arrabbiati. Meno stizziti per la perdita di un riconoscimento che rischia di essere sempre più formale e meno sostanziale. Meno stizziti perché più valorizzati per un servizio nuovo, volto alla ricerca di senso, orientato alla sete di spiritualità e al bisogno di Dio che non si è spento e che la Chiesa ha la vocazione di accompagnare nella sua ricerca. Così i presbiteri, accorgendosi che nell’aurora di un tempo nuovo di Chiesa stanno lasciando consuetudini e appunta-menti, ritualità troppo ripetute e insistenze pastorali divenute indispensabili, potrebbero a loro volta aiutare gli uomini e le donne di oggi, in questa stagione confusa, a non cercare tra i morti. Cessando essi stessi di farlo nella rinuncia a ripristinare a tutta forza la pastorale di ieri, accettando di vivere il lutto di una forma di Chiesa da salutare con gratitudine, ma senza ripiegarsi sulla nostalgia, quasi che tutto andasse sempre e soltanto bene, saranno in grado di sostenere il germogliare e il crescere di una nuova forma di Chiesa. È stata dura ritrovarsi spogliati nel giro di poche settimane del ruolo apicale della loro piccola o grande società parrocchiale, faticoso accettare lo smarrimento che si prova a gestire i riti così differenti e complicati mentre fino a ieri cavalcavano con sicurezza linguaggi e forme, forse brutale ritrovarsi privati del rivestimento offerto da un ruolo sociale ancora di qualche rilievo: ma grazie a questa spogliazione, al lutto da abbracciare nella fede che la morte non è mai in Cristo l’ultima parola sulla vita, essi potranno imparare a cercare nelle forme nuove di Chiesa il riconoscimento dei segni della presenza di Dio e il ritrovamento delle tracce che Egli lascia nel suo nascondersi nel mondo. Così saranno uomini accanto agli uomini: indispensabili alla vita del mondo nel loro servizio “non essenziale”.

da L’Osservatore Romano, 25 settembre 2020